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giovedì 18 giugno 2015

Amato Eridano, parte II di III


La promessa di una totale oscurità venne subito onorata. In quel buio che risucchiava persino il tempo e lo spazio, il tatto divenne il mio unico alleato. Mi segnalò ben presto screpolature, piccole faglie e canyon, squarci e ferite profonde ma mai mortali, forse rughe di vecchiaia e saggezza, nelle quali si erano incanalate gocce secche di linfa e resina. Erano venature di vuoto, ma in esse, lo intuivo, giacevano stille di sapienza ancestrale.

Ogni mio passo provocava uno scricchiolio, mi sorpresi a non definirlo sinistro, solo antico e dolce, addirittura sensuale, per qualche insondabile ragione, femminile.

Era legno dunque anche il pavimento, talmente rinsecchito da essere dventato più duro e robusto del ferro. Qualsiasi lama si sarebbe accartocciata come cartapesta se avesse provato a scrutarne le oscure profondità.

Procedendo a tentoni capii che stavo iniziando a scendere, sentii sotto i miei piedi degli scalini. Di un raggio di luce, ovviamente, nemmeno l'ombra; ero lasciato in balia del tatto e dell' olfatto ed ora, all'improvviso, dell'udito.

Mi sembrò, infatti, di distinguere appena appena accennato, un suono; mi resi conto così,dovunque fossi, di non essere più solo.

Partirono note guizzanti, come lampi che sfrecciano nel buio e lo squarciano. Un misterioso maestro d'orchestra aveva dato il là ad un concerto inatteso: risatine soffocate, dentini di fate che trillavano sorpresa e divertimento, vocine acute e cristalline. Paroline sottili e sussurrate, ma al contempo sgorganti e impetuose, vivaci e acquee come quelle di gioiosi fanciulli, emanavano frescura silvana. Come se a parlare fossero le antiche memorie delle assi di quello strano ipogeo, un tempo alberi imponenti e boschi lussureggianti pieni di driadi e ninfe.

Una suggestiva nenia in un linguaggio a me sconosciuto, probabilmente morto da millenni, un' eco antica, ma selvaggia e possente che si era preservata fino a noi da chissà quale inaccessibile passato. Eppure non c'era polvere su quelle parole, su quelle ugole vergini, erano vivide e cangianti, luminose di candore.

Ormai non pensavo più a nulla, ero solo rapito, estasiato da quel coro di mughetti e bucaneve. Mi sentivo come bimbo a caccia di farfalle, con il mio retino d'ascolto, che cerca d' afferrare con goffaggine ciò che si librava nell'aria con tanta leggiadria e naturalezza.

Eran suoni tanto gradevoli quanto lontani, remoti come baluginio stellare, piacevoli, anzi, piacenti e orecchiabilissimi, nonostante fossero incomprensibili,o forse proprio per questo...

E cosi proseguii, ora sempre più a tentoni, verso l'oscurità crescente, sospinto da mani canterine.

Ritornarono alle loro antiche faccende quelle mani, perchè tutto d'un tratto vi fu silenzio di tomba. E poco dopo capii che di tomba si trattava, a tutti gli effetti.

Partirono di nuovo degli acuti, delle note singole, sprizzarono effervescenti, intense ed altissime ,quanto rapidissime nel loro susseguirsi. Ora ogni acuto emanato corrispondeva a una luce, un flash, che vibrava in quella miniera di tenebra e mi faceva sentire sperduta bestia, impaurita di fronte a un poderoso temporale estivo mentre dal suo stretto e poco asciutto riparo era obbligata a godersi uno spettacolo maestoso, terrorizzante e stimolante insieme.

Non so se posso ripetere con esattezza quello che vidi e nemmeno se voglio davvero farlo. Fui colto da sacro timore. Rimasi impietrito, morto anch'io, sparuto visitatore di quel cimitero, dinanzi a un altro morto.

Vidi qualcuno disteso in una nicchia in fondo alla parete, i resti di uno scheletro più nero di quel legno carbonizzato dai millenni, talmente possente e vigoroso che sembrava quasi una persona ancora in carne ed ossa. Senza dubbio un gigante, superava ogni umana dimensione.

M' immaginavo già chissà quali tesori potesse custodire quella cripta, degni del corredo funebre di quell'essere sovrumano che aveva attraversato e calcato queste terre quando il Po era largo chilometri e chilometri, per ragioni mai scritte e registrate dalla storia.


Le note di luce continuavano a pulsare, iniziavo già a sentirmi allucinato, drogato da quegli impulsi psichedelici. Anch'io in quel momento avrei voluto essere sdraiato.

Sconcertato, mi giravo intorno ma non trovavo nulla di quello che cercavo, nè oro, nè argento, nè elettro, solo legno e ossa.

Aguzzai lo sguardo e notai che qualcosa brandiva ancora quella mano tutt'altro che impallidita dalla morte, altro legno, una lunga clava, bitorzoluta e lucente, sembrava emanare una tenue luce propria, una pallida aurea di possenza e invincibilità, nonchè una patina che solamente il trascorrere di interi millenni poteva lasciare sulla sua superficie.

Non potei non notare come quell'arma micidiale fosse di un legno assai diverso da tutto quello che mi circondava. Non aveva spaccature, nè era nerastro, ma di un colore più vivace e luminoso, un bruno rossastro che luccicava come un sanguigno diaspro, le cui venature sottili e gradevoli sembravano filigrane e intarsi degne di un Maggiolini.

Non appena osai toccarlo, le luci si addormentarono. Notte fonda, e silenzio di pugnali. Il dito che avevo posato su quell'arma divenne una mano intera, che per istinto di protezione volle afferrare e sollevare dal suo giaciglio. Barcollai incerto , più per la sorpresa che per lo sforzo, quando mi accorsi di non riuscirci: quella clava era pesantissima, dovetti cedere dopo esser riuscito a sollevare di qualche centimetro, a mala pena, lo stelo di quel fiore antico.

Un fiore davvero raro e prezioso, che evidentemente era vietato cogliere.
Ecco che il cane destato iniziò a ringhiare.Il cuore mi si fermò per il terrore.
Risuonò un seccato AHUAAMMMMMMM, come un lungo sbadiglio, protratto intenzionalmente per far capire al sottoscritto quanto l'oscuro (ora in tutti i sensi) risvegliato stesse bene nel suo sonno.

Io, non c'è nemmeno bisogno di dirlo, caddi all'indietro dalla paura e cercai di rimanere immobile e nascosto (questo non era molto difficile dopo che si erano spente le luci). Vi furono, lunghi, lunghissimi secondi di silenzio.

Ebbi fin da subito la spiacevolissima sensazione che nonostante il buio fossi tutt'altro che invisibile. Chiunque fosse il ridesto, mi stava assaggiando, con occhi penetranti e olfatto animalesco.

Come zampata felina arrivò questa sarcastica uscita : “Bhè che fai li per terra, alzati in piedi che tu ce le hai le gambe per star ritto!"

Inebetito da quella richiesta perentoria, mi misi subito sull'attenti come se avessi davanti a me un generale che mi stesse facendo una strigliata.

“Su su, non stupirti, se sanno parlare degli idioti come gli esseri umani, perchè non dovrei parlare io, figlia del sommo Olimpo?”

Riflettevo dentro me, ancora più sbigottito e stralunato: figlia del sommo Olimpo? Oh mio dio (si proprio quello) ma chi sto ascoltando ?

“Su su smettila di fare il finto tonto, mi riferivo a Zeus ovviamente”.

Ebbene si, non volevo crederci eppure a proferir parola era proprio quel pezzo di legno, quell'arma micidiale posata a fianco del suo possessore.

E pensare che inizialmente ero convinto che fosse stato quello scheletro, ridestatosi dalla morte, a rivolgermi la parola!

Mi sentivo come Alice nel Paese delle Meraviglie, tanto valeva vedere fin dove potevo spingermi in quell' antro di sogno; mi feci coraggio e tentai di stare al gioco, cercando di non balbettare: “Un pezzo di legno parlante? Oh! Questa è bella! Sei un vegetale estremamente intelligente oppure un disgraziato che ha adescato l'ira degli dei e si è fatto trasformare in un pezzo di legno?.E se così fosse devi averla combinata proprio grossa!”.

La risposta giunse repentina e sdegnosa: “Oh insomma, ma non capisci proprio niente sai? Io sono sempre stata così, o meglio, più o meno così, intendo dire che son sempre appartenuta al regno vegetale. Un tempo ero un'altissima e sacra quercia di Dodonax, la somma foresta, profumata dall'alito di Zeus, il più segreto degli oracoli, dove i tronchi trasudavano umori alati come le caviglie di Ermes e le foglie scintillavano al vento come i lampi del Re degli dei.

Ma come oracolo non fui molto frequentato, i responsi erano troppo difficili da interpretare per voi miseri umani, non è per tutti la voce dell'altissimo.

Solo pochissimi riuscivano a comprenderci, a parlare con noi. Uno era un dolce giovane, aveva capito il segreto, non apriva le sue labbra, pizzicava la sua lira. Ahh eran bei momenti quelli, si fermavano tutte le creature del bosco a celebrare quella melodia, anche i ruscelli.

Arrivò poi un giorno in cui abbandonai le mie consorelle, fummo in tante ad andarcene e a non tornare mai più. Ad un nobile eroe, fu concesso un privilegio senza eguali: alcuni alberi sacri dell'oracolo divennero la carena inviolabile della sua imbarcazione.

Il suo nome era Giasone e Argo quello della sua nave.

Mai, mai più sulla terra si vide un capolavoro di tal fatta: il Mare, il vecchio, barbuto,immenso Mare, piange ancora oggi al ricordo delle poesie che passarono sulla sua pelle, al ricordo dei cori che elettrizzavano la sua superfice. Mai, mai nessuno lo aveva accarezzato in quel modo. Non osò mai, nemmeno una volta, smuovere un'onda contro di noi, tanto era la sua brama di afferrare ogni nostra nota. Avrebbe forse voluto ospitarci per sempre nei suoi abissi, a violare i silenzi più solenni e intatti, per addolcirlo un poco, ma mai lasciò trapelare il suo recondito desiderio e mai tentò di inghiottirci.

Il loro viaggio lì portò a lasciare le acque salate per risalire la corrente di un fiume placido e maestoso, se non nei momenti di rabbia e ira irrefrenabile, quando si gonfiava di acque torbide e limacciose che sfogavano tutta la loro furia inondando le terre circostanti.

Lo chiamavano Eridano, carico di muco e melma, sparpagliato a casaccio per chilometri interi, largo di compassione infinita, accoglieva ogni morto, orgni marciume, ogni requiem nel suo ampio, morbido ventre materno. Mangiava morte e partoriva vita, ingoiava nigrido e trionfava albedo. Re degli alchimisti, discepolo del sommo Nilo.

Risalimmo con quegli eroi ineguagliati il suo corso, finchè non fu più fiume, non fu più acqua, fu solo densa palude, vasta come il mare e ancora più amara. Molti secoli più tardi i posteri chiameranno quell'inferno di malattie e piante rare e velenose Lago Gerundo.

In quel luogo vennero attaccati da una bestia primordiale, sgorgata dai budelli di quella poltiglia fumosa e fermentata, il panico si scatenò a bordo, erano eroi, ma mai era capitato loro di combattere contro qualcosa di tanto immondo.

Fu per grazia infinita, che proprio per quelle macilente terre si trovasse a cacciare l'infallibile Arciere, Orione, il Vecchio. Solo lui poteva avventurarsi per regione così funeste, solo lui poteva svettare da quelle sabbie mobili, da quei risucchi di ulcere purulente.

Quel mostro mancava nel suo carniere, sarebbe stata la sua ultima preda, il suo ultimo trofeo. Fece sibilare le sue frecce come serpenti di Zefiro e penetrò negli occhi dell'immondo sauro come maledizione lancinante, strappandogli insieme vista e respiro. Venne ringhiottito da quel magma di humus e putredine da cui proveniva, la superficie ribollì di acredine, sbavò pantani di turpiloquio e saliva acida e corrosiva.

Fu grande festa quel giorno, raro era poter avvistare quell'anziano semidio, ancor più raro ricevere il suo pronto soccorso.

Il saggio Argo volle donare al loro salvatore un dono prezioso, un asse divelta della nave da quel viscido rettile.

Orione accettò con gratitudine l'omaggio e si ripropose di aggiustare il pezzo mancante con nuovo legname, sempre di quercia, ma senza favella.

Da quella maceria informe, da quel legno spiritato, ricavò, con lavoro magnifico e ispirato, la sua ultima arma, che usò ben poche volte, e fu per lo più arma da parata.

In poche parole : Io.

E se tu non lo avessi ancora capito, sei dentro Argo e di fronte a Orione.

I nobili Argonauti, molti anni dopo che fu conclusa la loro missione , all'unisono vollero far diventare questo maestoso veliero l'ultima casa del loro salvatore, che nel frattempo aveva raggiunto le Gemme infuocate della sua Cinta.

In cuor loro, questo nobile gesto, non avvenne tanto per l'uccisione di quel mostro viscido, Tarantasio, ma per l'indelebile e segreto rimorso di non aver più avuto occasione di consolidare quell'amicizia che si era suggellata in fugaci occhiate, in gesti rituali e poche, pregnanti parole. Troppo poche avrebbero poi gridato i loro cuori.

Le voci che sentisti poc'anzi erano quelle delle mie consorelle, le stesse del Sacro Bosco; voci, come la mia, giovani e femminili. Il motivo di questa scelta rimane conficcato e inestricabile nella mente del nostro Alto Padre.

Non c'è bisogno che ti rammenti dell'altissimo privilegio che ti è stato concesso a entrare in questo luogo. Pochissimi i mortali che ne hanno varcato la soglia.

Sappi solo che tra gli ultimi a metterci piede, fu un eccelso artigiano, Stradivarius lo chiamate, trovò anche lui "per caso" questa tomba e intuendo immediatamente le qualità divine di questo legno ne estrasse alcuni frammenti e li nascose all'interno dei suoi violi, eccoti così spiegato il loro mistero di perfezione.

Non so bene il motivo per il quale la mia consistenza è diversa rispetto a quella delle mie consorelle, forse gli unguenti e gli olii che Orione usò per conservarmi e lustrarmi, forse qualche virtù portentosa nascosta nel palmo delle sue mani che penetrò in me ed è parte di me, per sempre..."

Tacque.

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