C'è
una forza speciale, non ancora censita dalla scienza, che aleggia
come fine nebbiolina sulle terre molli e grasse della Pianura
Padana, ancora intrisa, nel profondo ventre dei suoi campi fertili e
verdi, degli umori di paludi antichissime e impenetrabili.
Una
forza, ma in realtà una debolezza, un'inerzia atavica, dove le mani
e le tasche dei suoi abitanti sono in perenne fermento ma lo spirito
langue e poltrisce. Come se
una
gravità doppia rispetto al normale tendesse a far reclinare al suolo
non solo le spalle e lo sguardo di chi ne calpesta la superficie ma
anche i loro sogni e pensieri, sino a farli sprofondare nell'oblio,
richiamo ineludibile di quei pantani ormai sepolti.
Ogni
passo in aperta campagna, appena si varca la soglia del cemento
cittadino , si fa stranamente pesante: i fantasmi degli acquitrini
ormai bonificati ti reclamano nel loro sottomondo, agli stivali si
avvinghiano argille tenaci e collose che ti trascinano al suolo,
rubandoti al cielo.
E
così fu anche quella mattina dove il fango e la molta sembravano
impastarsi con lo scorrere stesso del tempo, rallentandone persino
il corso.
I
miei passi, assorti nei loro pensieri, stavano per arrivare, senza
che nemmeno me ne accorgessi, in prossimità del vecchio Eridano,
moribondo patriarca di una natura torturata e martoriata da umani
perversi, trasformatisi da giardinieri della Terra ad aguzzini
implacabili: lo avevano umiliato e abbruttito sino a renderlo
pallida ombra di se stesso. Era un miracolo che fosse ancora vivo,
instancabile portavoce di una religione eretica e perseguitata,
quella della Vita e della Bellezza.
Erano
rimaste solo le sue sabbie grigio-dorate a donargli tenere carezze:
lo circondavano in un perenne abbraccio e ne
assorbivano le lacrime, anch'esse, come le sue correnti, torbide e
limacciose. Con un lavoro incessante di molatura ne levigavano le
asperità dell'animo e addolcivano le asprezze della sua condanna.
Le
sue sabbie, pensai, non erano poi così dissimili da quelle di un
deserto: scoprivanoo e ricoprivano, incessantemente, rifiuti e
tesori; le une mosse dalle piene stagionali, le altre dai venti e
dalle tempeste. Un giocare a nascondino continuo, dove antiche rovine
e memorie di ere remote affioravano, scomparivano e riapparivano,
seguendo i capricci di qualche Djin del sottosuolo. In effetti le
enormi spiagge generate dalle anse del Po erano proprio come deserti
in miniatura, lande malinconiche e sperdute, frequentate da poche
persone e ancor meno animali; nei mesi più freddi e nebbiosi
acquisivano poi un che di spettrale, emanando un languore ed una
malinconia tipici dei lidi marini invernali, quando, liberi dal
chiasso e dalla ressa estiva, regalavano, a chi si accostava alle
rive spumose,
Ma
i fiumi rispetto al mare creavano terre nuove e fertili, con i lori
limi rinnovavano il suolo ad ogni esondazione, trasformando
radicalmente il loro corso e l'aspetto delle terre circostanti. Ogni
piena modificava sensibilmente le spiagge, rendendone spesso
irriconoscibile il volto ed aggiungendo sempre uno strato di pelle
nuova, disseminata di antichi reperti che attendevano solo di essere
scoperti. Era una piccola soddisfazione, per gli esploratori
cittadini, sentire l'ebrezza di calpestare terre sconosciute ed
inesplorate; sul cui suolo rinnovato, mai toccato da piede umano,
giacevano sparpagliate immondizie contemporanee a fianco di reperti
fossili e archeologici. Come se il Po, con il suo scavare e rimestare
incessante fosse uno spontaneo portale tra l'oggi e il passato, una
liquida clessidra che continuava a rovesciarsi, mescolando alla
rinfusa il presente con i ricordi più remoti della storia e della
preistoria.
Man
mano che mi avvicinai all'acqua, percepii nell'aria una frescura
minerale, frizzante e tersa, odorava di piccoli cristalli guizzanti.
L'agitazione e lo scontro, dovuti alla corrente, tra le molecole
d'acqua e le ghiaie emanavano nell'aria come un polline minerale
vibrante di elettricità, donando un odore particolare e gradevole
all'atmosfera circostante. E' incredibile come il grande fiume fosse
riuscito a mantenere questa dignità, questa luminosità olfattiva
nonostante l'accanimento con il quale veniva costantemente sfregiato
e sfigurato.
Continuai
a camminare tentando d' immaginare come dovesse essere stato fino a
non molto tempo fa quel fiume: possente, libero, fiero e solitario
come un condottiero, ma anche madre accogliente per miriadi di rivoli
e corsi d'acqua minori.
Ormai
non distavo molto dal suo letto, guardandomi intorno mi accorsi che
la sabbia si confondeva con l'orizzonte, lontano lontano, sembrava
non finire mai.
Rimasi
ammaliato dalla vastità di quelle rene, la monotonia e la piattezza
del panorama erano rotte soltanto da fulmini e saette nere, che, come
impietrite, emergevano dal terreno anzichè trafiggere il cielo. Mi
sentii unico superstite nel mezzo di un campo di battaglia
antidiluviano: quelle saette ricordavano gli arti e i corpi straziati
e sofferenti di soldati titanici; affioravano dalla sabbia nelle
posizioni più contorte e grottesche, come nelle affollate e
intricate incisioni di Dorè di un qualche girone infernale.
In
realtà erano enormi tronchi rugginosi, screpolati e secchi, o rami
neri di carbone e tannini, testimonianze di esondazioni più o meno
recenti: alcuni risalivano a pochi anni or sono ed erano
perfettamente riconoscibili e famigliari, ad altri si poteva dare una
manciata di secoli; pochissimi ma splendidi, infine, risalivano a
svariati millenni or sono ed erano ormai trasfigurati, neri come la
pece e duri come pietre.
Provenivano dai boschi planiziali del primo Olocene, quando la nostra pianura era coperta da foreste monumentali e al posto di pannocchie di mais si innalzavano torri e guglie di alberi secolari, alti decine e decine di metri.
Provenivano dai boschi planiziali del primo Olocene, quando la nostra pianura era coperta da foreste monumentali e al posto di pannocchie di mais si innalzavano torri e guglie di alberi secolari, alti decine e decine di metri.
Tutti
quei tronchi, ceppi e radici capovolte, sparpagliati a caso come
fossero gettati al suolo da una indovina in cerca di premonizioni,
sembrava quasi non volessero decomporsi e tornare humus per nutrire il mondo, anime perse e senza pace, che si rivoltavano contro il ciclo naturale delle cose e desideravano a tutti i costi rimanere sì sulla terra ma senza terra diventare, bramosi d'immortalità come oscuri negromanti, destinati un giorno a diventare fossili, a pietrificarsi, a non lasciare mai più questo mondo. Chissà, forse anche loro avevano peccati da espiare, quali segrete e misteriose pene stavano mai scontando?
sembrava quasi non volessero decomporsi e tornare humus per nutrire il mondo, anime perse e senza pace, che si rivoltavano contro il ciclo naturale delle cose e desideravano a tutti i costi rimanere sì sulla terra ma senza terra diventare, bramosi d'immortalità come oscuri negromanti, destinati un giorno a diventare fossili, a pietrificarsi, a non lasciare mai più questo mondo. Chissà, forse anche loro avevano peccati da espiare, quali segrete e misteriose pene stavano mai scontando?
Tra
quei legni litici, torvi e pieni di nodi ve n' era uno in lontananza
che catturò la mia attenzione per il profilo inusuale,
sembrava
una persona accovacciata, anzi inginocchiata, come se stesse
pregando. Proprio come quella pietra suggestiva fotografata sulla
superficie di Marte.
Realtà
o miraggio? Uomo o vegetale? Amico o nemico? Queste domande istintive
tamburellavano con ritmo serrato nella mia mente, sentii le tempie
pulsare e una serpeggiante paura mi stava inchiodando al muro del
dubbio. Mentre valutavo la mia prossima mossa,
l'improvviso e acuto richiamo di un gabbiano mi venne in soccorso e
mi scosse da quel letargo d'indecisione.
Proseguii
con circospezione, per non disturbare il raccoglimento di
quell'essere, qualunque cosa fosse.
Mi bloccai e mi irrigidii nuovamente, stavolta non per la paura ma
per una lucida meraviglia. Diamine, esclamai dentro di me, giunto ad
una distanza tale da poterne ben giudicare la natura: “Altro che
radice o fusto d'albero, quello è proprio un uomo: vecchio, ossuto e
nodoso come un ceppo coronato di funghi, coperto di vesti scure,
oltre che di una veste impalpabile di solenne regalità.
Ma
che stava facendo? Stava davvero pregando? Qui? In mezzo al nulla?
Che tempio o cimitero si poteva mai celare in un posto simile ?”
Pensai
che i miei passi, attutiti dalla soffice superficie, non avrebbero di
certo disturbato il religioso silenzio di quella strana scena. Tentai
allora di avvicinarmi alle spalle di quell'essere: non avevo compiuto
nemmeno il primo passo quando una voce flebile e roca iniziò a
parlami, senza voltarsi, senza alzarsi in piedi.
“Vieni,
tenero fuscello, vieni a vedere come si diventa possente fusto”.
Nemmeno
allora si mosse di una virgola, sollevò soltanto la mano destra e la
tenne immobile, più per intimare un alt che come segno di saluto.
Poi la calò pacatamente al suolo ed iniziò ad accarezzare la
sabbia, a spazzarla via; dopo pochi istanti s'intravvide qualcosa,
una macchia scura, bruciata da innumerevoli soli spietati: era uno di
quei resti legnosi screpolati e assetati, con il segreto desiderio di
germogliare ancora e rinverdire per l'ultima primavera.
Iniziarono
a vedersi dei bordi, una forma, pareva una porticina o uno sportello,
che impediva alla sabbia di germogliare in ciò che esso proteggeva.
Sollevò
con le sue mani possenti quel macigno ligneo ed apparì un vuoto, un
antro famelico di luce.
“Entra
!” Proferì deciso, in tono ieratico, come se si stesse celebrando
un rito d'iniziazione al quale nessuno mi aveva invitato.
Io
osai solo avvicinarmi di un passo, allungando il collo, per sbirciare
meglio quella sorpresa inaspettata, quella tana del mistero. Non ebbi
nemmeno l'ardore di guardare in volto quello strano eremita per
studiarne i lineamenti.
“Entra
!” Sempre più imperioso, “Ma ricordati! Là dentro ti attende
un buio senza nome: non troverai nè torce da accendere, nè
finestre da aprire, solo i tuoi sensi e la tua luce interiore
potranno guidarti”.
“Entra!”
Esclamò per la terza volta.
Entrai.
La
forza di quella voce, di quell' imposizione, fu più di un ordine, fu
più di un comando. Era semplicemente il solo ed unico motivo per il
quale ero arrivato fin lì. In un certo senso quella voce non era
dell' anziano, era la mia. Io stesso mi ero chiamato, io stesso mi
ero invitato, chissà quanti secoli prima, per raggiungere quel
luogo. Non potevo far altro che ubbidirmi.
C'è
una forza speciale, non ancora censita dalla scienza, che aleggia
come fine nebbiolina sulle terre molli e grasse della Pianura
Padana, ancora intrisa, nel profondo ventre dei suoi campi fertili e
verdi, degli umori di paludi antichissime e impenetrabili.
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